Sull’esito del bando “Valore Paese-Fari”

In questi giorni è stata resa pubblica la graduatoria provvisoria di concessione (fino a un massimo di 50 anni) del bando “Valore Paese-Fari”, da cui si evince che i proponenti sono imprese locali e nazionali, ma anche investitori esteri, società dell’industria dell’ospitalità e aziende che si occupano di organizzazione di eventi. Un’iniziativa che è già arrivata al secondo bando di gara per il recupero dei fari e delle strutture costiere (in parte in capo all’Agenzia del Demanio e in parte a Difesa Servizi Spa) con 54 proposte di  riuso.

Analizzando sommariamente i contenuti progettuali delle 15 strutture aggiudicate in concessione si possono fare alcune prime considerazioni di tendenza che potranno poi essere ulteriormente confermate tenendo conto che in autunno partirà la terza gara, che  interesserà anche nuove Regioni ampliando la rete di tutti i fari e gli edifici costieri italiani. In sintesi si può dunque rilevare quanto segue:

  • il 40% dei progetti riguarda proposte monofunzionali mentre il 60% si sviluppa con funzioni miste.
  • La ricettività è l’elemento più ricorrente, essendo presente nell’80% dei casi.
  • Il food interessa il 40% delle proposte.
  • Tra le funzioni integrate a quella principale, emerge la destinazione museale per il 33%, quella educativa per il 27% e altre varie attività per il 13%.

Tra le proposte più innovative quella del Faro Spignon nella laguna di Venezia, per cui si prevede la realizzazione di un “rifugio”, da intendersi come spazio per riflettere e meditare. Nell’intervista a Roberto Reggi, direttore dell’Agenzia del Demanio, la narrazione di come si è evoluto l’approccio per rispondere meglio alle esigenze che si sono via, via manifestate.

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roberto.tognetti@riusiamolitalia.it

 

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Se non è una nuova “Querelle des Anciens et des Modernes”

Sarebbe bello se si trattasse di una nuova Querelle des Anciens et des Modernes sulla rigenerazione urbana a livello nazionale o più in dettaglio tra alcune regioni come l’Emilia Romagna e il Veneto, è invece probabile che si tratti di modi diversi di vedere il futuro da parte di soggetti e interessi agli antipodi tra di loro. L’interpretazione del presente è sempre più complessa e fanno fatica a imporsi i modelli nuovi tra ibridazione, sperimentazione e sostenibilità necessitante, specialmente in quei contesti dove molti paradigmi del passato, pur non funzionando più, continuano a suscitare inconsapevoli  inerzie, consolanti nostalgie o improbabili speculazioni. E ciò nonostante alcuni punti di vista autorevolissimi abbiano assegnato proprio alla rigenerazione urbana la responsabilità di diventare elemento unico di egemonia culturale.

Alcuni studi ed esperienze recenti possono aiutare a comprendere questa dicotomia.

Dal lato del diabolico perseverare nel riproporre schemi obsoleti di consumo del territorio, ci sono i rapporti dell’istituto superiore per la ricerca e la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e ci sono studi specifici come nel caso del dossier di Legambiente “Consumo di suolo in Emilia-Romagna: le criticità che la proposta di legge regionale non risolve”, dove, in una delle regioni che vanta tra le più importanti tradizioni di buon governo e di eccellente pianificazione territoriale, si illustrano variegati progetti di cementificazione in gran parte delle sue province. Segnalazioni di infrastrutture e interventi invasivi nelle province di Parma, Modena, Bologna, Reggio Emilia, Ferrara e Ravenna. Nella sola provincia di Piacenza si va dalla previsione di un milione di metri quadrati di cemento  per il Polo Logistico a Roncaglia, al Piano Operativo del capoluogo dove da una sommaria analisi delle aree soggette a possibile manifestazione d’interesse, si calcolano circa 5 milioni di metri quadri di nuove potenziali urbanizzazioni sia a carattere residenziale che industriale (esclusa l’espansione del Polo Logistico).

Dall’altra parte ci sono vari segnali di contrasto agli approcci selvaggi e consumistici, con visioni e proposte che si fanno carico pienamente dei cambiamenti in atto e delle prospettive future basate sull’uso consapevole delle risorse e sulla dimensione sempre più “cognitiva” dello sviluppo.

Innanzitutto con la riflessione contenuta nel  volume “Un manifesto per il Veneto” a cura del Raggruppamento di Ricerca NUQ (Nuova Questione Urbana) del Dipartimento di Culture del Progetto dell’Università Iuav di Venezia. Si propone in forma di “manifesto” un’agenda programmatica con l’intenzione di disegnare il futuro assetto territoriale della regione. E tutto ciò tenendo in forte evidenza il fatto che si tratta di un contesto dove lo sprawl  continua a propagarsi come risultato di un’urbanistica sconnessa che proietta il Veneto a essere, dopo la Lombardia, la regione italiana con il maggior consumo di suolo, misurato nella media di  oltre il 12%, diventa addirittura il 20% se si limitano i calcoli alle sole aree pianeggianti.

A Reggio Emilia con la convocazione degli stati generali dell’area Nord sta per essere delineato un masterplan basato sulla rigenerazione urbana comprensiva di ragioneria urbanistica “sottrattiva” con: 206 ettari “riconvertiti” da edificabili ad agricoli (136 ettari nel 2015 con la variante in riduzione e successivamente altri 70), 1.130 alloggi in meno e 40.000 metri quadrati di superficie di vendita commerciale in meno fuori dal centro storico. E ancora, semplificazione delle procedure e inquadramento del riuso temporaneo soprattutto in funzione del recupero degli spazi abbandonati. In particolare sono stati identificati sette edifici disemssi, per ospitare funzioni sociali, sportive, ricreative, culturali, in modo da offrire nuovi servizi e opportunità alle comunità locali.

Tornando in Veneto, emerge anche un caso di riuso responsabile,  per ora più unico che raro,  da parte dell’imprenditore Damaso  Zanardo che decide di far rinascere l’area dell’ex Pagnossin di Treviso. Un sito dismesso dal 2008 di 100mila metri quadri di archeologia industriale. Attraverso un accordo fra gruppo Zanardo e l’università Iuav di Venezia è nato il progetto denominato “Open Dream” concepito per dare risposte nuove alle primarie esigenze della persona, con l’obiettivo di creare una cittadella dove riescano a convivere: food & beverage, ricettività, eventi, arte e design, produzioni locali, bioagricoltura.

Si tratta dunque di ricerche ed esperienze che possono ispirare e definire anche linee tecnico – metodologiche, ma che soprattutto  indicano concretamente con l’esempio di un nuovo modo di rigenerare le città.

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BORGHI A RISCHIO SPOPOLAMENTO: L’ESEMPIO DI BORMIDA

In un 2017 solennemente celebrato come l’”anno dei borghi” , nella perenne attesa che la Legge sui piccoli comuni  venga approvata, e pur con il lento avvio della Strategia nazionale per le Aree interne, alcuni amministratori tra resilienza e fantasia riescono ad inventarsi il futuro. Daniele Galliano, primo cittadino di Bormida in provincia di Savona, aveva lanciato nel 2014 gli alloggi in affitto a 50 euro  ottenendo alcuni primi riscontri positivi. Ora sta per pubblicare altri analoghi bandi ad affitto calmierato e con l’occasione ha voluto provocatoriamente lanciare il suo appello: un bonus di 2mila euro a chi prende la residenza a Bormida. Secondo i dati di Legambiente sono 1650 i borghi che rischiano di essere abbandonati in Italia e l’atteggiamento del sindaco di Bormida è un esempio per tutti. ved. anche: http://www.nonsprecare.it/ripopolare-i-comuni-abbandonati

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SE LA FOTOGRAFIA RISCATTA IL PATRIMONIO ABBANDONATO

Da qualche anno la fotografia ha assunto il patrimonio abbandonato come campo di ricerca speciale. Ciò è avvenuto  a vari livelli e non senza contraddizioni di linguaggio, ma nel suo insieme questa tendenza sta contribuendo alla diffusione di una consapevolezza nuova su questo grande tema. Attraverso le immagini si esprime infatti l’emozione triste della perdita e della rimozione, ma si trasmette anche il senso e significato alle straordinarie potenzialità di rinascita e di valorizzazione di una moltitudine di beni abbandonati, dismessi, devastati o anche più semplicemente sottoutilizzati. Di fatto, attraverso il lavoro di alcuni protagonisti della fotografia contemporanea, si acquisisce un repertorio di casi e di opportunità, da cui si evince che proprio il riuso creativo e il riuso temporaneo potrebbero scatenare uno straordinaria concentrazione di energie in tutte le aree del paese, sotto forma di nuove imprese a vocazione culturale, sociale, turistica, ambientale, ecc.

Le immagini, quando sono il risultato di una ricerca di qualità artistica e di impegno civile, aiutano infatti a capire che è perfettamente applicabile quell’approccio minimal del “fare molto con poco”, che aiuta la rigenerazione del patrimonio dismesso anche con modeste risorse necessarie e sufficienti a funzioni di “innesco” processuale. Si può intervenire infatti per parti, in modo graduale, si possono accostare ai contesti da valorizzare piccoli contenitori di supporto sufficienti ad ospitare le prime funzioni di presidio e cura, si può operare con metodo relazionale collegando il fascino di situazioni difficili, come ruderi o rovine, ad altri beni perfettamente conservati. Insomma molteplici sono  le buone pratiche da replicare per assicurare risultati importanti, e infinite possono essere le modalità per interpretare con metodi nuovi i casi particolarmente complessi. Da questo punto di vista segnaliamo due lavori di particolare qualità e attenzione. Il primo  consiste nell’opera di Silvia Camporesi che ha mappato, regione per regione, più di 150 luoghi, paesi ed edifici abbandonati, e che si trova in mostra a Ferrara fino all’8 ottobre. Il secondo lavoro da evidenziare, riguarda una sorta di “fotoreportage di attraversamento” che è stato sviluppato in Basilicata volutamente fuori dall’orbita e dal clamore della città capoluogo regionale che si prepara a diventare capitale europea della cultura nel 2019. Un viaggio svolto dalla fotografa pugliese Laura Greco che tra il silenzio, l’abbandonato e gli orizzonti aperti dei paesaggi, ha riportato l’attenzione sugli effetti della desertificazione sociale in atto in queste aree rurali.

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DELLA “MAPPATURA” O CONOSCERE PER AGIRE

Si invoca molto, si dice spesso, non sempre si fa, ma “conoscere per agire” rimane generalmente un buon modo per affrontare i problemi. In tale ottica la “mappatura” degli spazi e dei luoghi da riusare è un ottimo strumento per cominciare a capire come rigenerare la città. Molte amministrazioni lo stanno facendo, come per esempio nei casi di San Giorgio di Pesaro, di Altopascio, di Volterra o in Lunigiana, o più in generale per il vasto e articolato fenomeno dei paesi fantasma.

Da lì enormi possibilità di sviluppo facendo convergere offerta e domanda di spazi per attivare processi e progetti a livello culturale, sociale ed economico. Per un approccio diretto e pragmatico che tenga conto di tempi e costi ragionevoli per risultati tangibili nel breve periodo, ved. http://www.riusiamolitalia.it/ita/domandaofferta.asp

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Senza “Idillio” certe cose non succedono

La buona notizia è che lo Stato non ha più risorse, l’altra buona notizia è che si stanno moltiplicando le occasioni per l’intervento pro-attivo dei privati nella gestione dei beni pubblici, la cattiva notizia è che ciò avviene con strumenti sbagliati come nel caso del primo bando del ministero dei Beni culturali – per affidare a una gestione privata parte del patrimonio artistico nazionale . Una vicenda che si è chiusa con appena sette risposte rispetto ai tredici monumenti messi all’asta: troppo dure le condizioni e i vincoli di ingaggio, troppo freddo e asettico il contesto dentro il quale è stata  inserita questa prima chiamata, a conferma del fatto che senza “Idillio” certe cose non succedono. La cosiddetta chimica delle relazioni, l’attrazione irragionevole tra due persone, ha una uno scopo ed una sua “logica”. Non è casuale: è una coincidenza fortunata è la kairos degli antichi greci. C’è così una “chimica” tra persone e persone, così come tra persone e luoghi, nel senso che i luoghi non possono essere considerati indifferenti ai soggetti e alle comunità di contesto e di riferimento.  Servono politiche pubbliche aperte e non impersonali per lo sviluppo dei beni comuni e per contaminare rigenerazione urbana, innovazione sociale, senso di appartenenza e identità territoriale. Se l’attrazione tra due persone deve sempre contenere informazioni essenziali, a maggior ragione l’avvicinamento tra un luogo e una comunità di cura e di valorizzazione deve contenerne ancora di più, sia a livello palese che in forma tacita, sia in senso formale che informale.  Si è già avuto modo di scrivere come molte comunità di pratica «in questi anni di transizione si stanno costruendo una dimensione “affettiva” nello spazio di vita e lavoro. Può essere una filanda dismessa o un castello, una stazione abbandonata o un orto urbano, o ancora una valle o una piazza, una vigna … può essere in definitiva qualsiasi spazio che richiede di prendersene cura, l’importante è che diventi un luogo per aggregare impegno, bellezza, condivisione e visione del futuro». Serve quindi individuare nuovi modelli di partenariato pubblico privato dove la cittadinanza attiva possa fare la differenza nella rigenerazione dei luoghi sottoutilizzati in un rinnovato ecosistema di informazioni e relazioni tra persone e istituzioni.

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SE IL RIUSO CREATIVO HA BISOGNO DI EROI

Sono passati più di due anni dalla pubblicazione del libro “Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start-up culturali e sociali”. Con quasi cento presentazioni in giro per le regioni italiane, le recensioni di svariate testate giornalistiche, le decine di contatti attivati, si può dire che il suo “messaggio” ha svolto con successo la funzione di stimolatore di riflessioni, idee e visioni verso nuovi modelli operativi di RIUSO TEMPORANEO E CREATIVO, dove i contenuti sono più importanti dei contenitori. Anzi proprio per questo motivo aiutano i contenitori stessi e riassumere valore, significato, forza simbolica, fino a diventare un unicum tra il cosa, il come, il perché e il dove. Ovviamente la ricerca continua nello spirito nomade del libro, nato appunto come “Roadbook”, e in tale prospettiva è stata rafforzata l’organizzazione per dare supporto a chi sta lavorando per “riusare e reinventare l’Italia”.

 

In questa cornice è possibile registrare una più che promettente reazione positiva da parte di moltissimi soggetti e centri di competenza impegnati nel promuovere innovazione sociale, economica, culturale, quali: centri culturali, università, gallerie d’arte, agenzie di formazione e/o di sviluppo, fab lab, blog, giornali di settore e non, gruppi, associazioni, comitati civici, centri di ricerca, gruppi informali. Sono stati veramente in tanti a chiedere, a mettersi in contatto, a formulare inviti o confronti. Tutto bene allora? No, c’è un problema di fondo nella reazione e nel riscontro, c’è un assente non secondario che risponde al nome di “Politica” che non ha dimostrato per ora alcun interesse “strutturato” a capire, ad approfondire, a sperimentare, se non qualche timida, generica e isolata curiosità. Piccoli segnali certo ci sono a livello individuale, per cultura, competenza o curiosità, ma ancora lontani dal diventare fattore organico e contestuale ad una dato ambiente, città o territorio. C’è ancora molta difficoltà nel comprendere certe semplici “Istruzioni per l’uso” (o meglio “per il riuso”) a cominciare dal motto: “Più usi meno paghi” che attende solo di essere declinato in politiche e dispositivi per attuare concretamente politiche di sostenibilità. Certo si tratta di un campo nuovo e poco esplorato dove c’è un enorme fabbisogno di conoscenza specifica, di scambio di esperienze, di condivisione di dati, metodi, approcci, criteri di analisi, di impostazione, modelli di gestione, ecc. Molto si parla di “Beni pubblici” e di “Cittadinanza attiva” e intorno a ciò il dibattito si è fatto complesso, anche rispetto al valore “Istituente” di determinati approcci. Così si è espresso Johnny Dotti di Welfare Italia, IT al Meeting dell’Osservatorio Regionale Banche – Imprese di Economia e Finanza (OBI) nel Novembre 2014, quando ha rimarcato l’esistenza di un grande bacino economico, politico e sociale per recuperare elementi di democrazia, quali: acqua, energia, trasporti, scuola, salute, beni culturali e ambientali, questo –ha sottolineato- è un grande bacino di popolo, dove incominciare ad inserire esperienze istituenti. Grandi laboratori di esperienze istituenti sono per esempio tutte quelle vicine a quanto promulgato da Labsus , il laboratorio per la sussidiarietà, fondato sul ruolo pro-attivo delle persone come portatrici non solo di bisogni ma anche di capacità fondamentali. Competenze quindi da mettere a disposizione della comunità per contribuire a dare soluzione, insieme con le amministrazioni pubbliche, ai problemi di interesse generale. Labsus ha messo a punto il primo testo organico di Regolamento sull’amministrazione condivisa con il Comune di Bologna e come tale costituisce un modello da replicare in infinità di casi e contesti diversi. Analogo il lavoro di Labgov, per altro esteso ad una scena più spiccatamente europea e internazionale con un’importante priorità rivolta alla formazione di una nuova generazione di professionisti “esperti nella gestione dei beni comuni urbani”.

Forse è proprio per questo che il dibattito contemporaneo sui Beni Comuni animato da studiosi, pensatori e intellettuali di prim’ordine (da Stefano Rodotà a Gregorio Arena, da Salvatore Settis, a Gustavo Zagrebelsky da Ugo Mattei a Tomaso Montanari, da Cristian Iaione a Giuseppe Micciarelli e molti altri) ha avuto negli anni recenti due momenti apicali di aggregazione: quello del movimento per la difesa dell’”acqua pubblica” e quello della mobilitazione intorno al Teatro Valle di Roma che ha prodotto un modello statutario innovativo caratterizzato proprio da un “Preambolo” che solennemente sancisce il Teatro Valle di Roma come Bene Comune: Noi che in comune, dal 14 giugno del 2011, occupiamo, ci riappropriamo e restituiamo apertamente e pubblicamente il Teatro Valle di Roma alla comunità, intendiamo con il presente atto intraprendere un percorso costituente per il pieno riconoscimento giuridico del Teatro Valle di Roma come Bene Comune.

 

Tale approccio è stato per così dire “esploso” nel 2015 dalla monumentale opera di Pierre Dardot e Christian Laval: “Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo” (Pierre Dardot e Christian Laval, Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, 2015). Nella ricerca degli autori: quale sia oggi lo spazio per il “comune” (e per i beni comuni), cercando nella “prassi collettiva” la soluzione più coerente ed efficace. Serve ripensare il “comune” al di fuori del “bene” e lavorare sul concetto di “uso comune” sostanziandolo nell’azione concreta.

 

Anche il legislatore si è accorto del fenomeno promulgando l’art. 24 dello SBLOCCA ITALIA (Decreto Legge, testo coordinato 12.09.2014 n° 133 , G.U. 11.11.2014, Art. 24. – Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio), secondo il quale: I comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Secondo Ezio Micelli, docente Iuav di estimo e valutazione economica dei progetti, si intravvede uno scenario caratterizzato da una straordinaria stagione di sperimentazione da parte della PA in tema di dotazioni territoriali: i beni di pubblica utilità possono diventare dotazioni territoriali anche temporaneamente, senza dover far ricorso alla via tradizionale dell’appalto ma contando sulla partecipazione attiva della città. Interessante anche l’interpretazione che Franco Milella (Le regole di un nuovo gioco possibile, Il giornale delle fondazioni, 07/09/2016) produce rispetto al Nuovo Codice degli Appalti e Contratti Pubblici (dlgs. 50/2016) circa il potenziale inespresso delle partnership pubblico-private (PPP), con particolare riguardo ai partenariati d’innovazione e le regolazioni settoriali in materia di servizi sociali e interventi sui beni culturali.

 

Ciò per dire tra il serio ed il faceto, che la crisi in cui siamo sprofondati ha probabilmente origini anche psico-antropologiche. Ne aveva parlato Carlo Bastasin (Psicologia e ripresa. La depressione degli italiani e il rischio Paese, Il Sole 24 Ore, 30/11/2014) affermando che c’è nel nostro Paese uno stato di ansia e malcontento che può definirsi come uno specifico «malessere italiano». Una condizione dell’animo che sbalordisce quando si arriva da fuori: si esprime nelle avverse condizioni economiche, ma ha ormai natura sociale e perfino profondità psicologica. (…). L’alienazione si riflette nell’ostilità per gli altri. A chiudere la gabbia mentale è infine un discorso pubblico introverso e provinciale, in cui da 20 anni l’interesse dei media è assorbito dal «miglio quadrato» attorno al palazzo del governo.

 

A distanza di due anni da quella impressione il recente 50° Rapporto Censis mette altresì in luce la pericolosa faglia che si va instaurando tra mondo del potere politico e corpo sociale. È una ferita che ci rende quasi una “società dissociativa”, dove i due mondi sopra indicati vanno ognuno per proprio conto, con reciproci processi di rancorosa delegittimazione. (…). Converrà, quindi, seriamente comprendere che quel distacco non è il frutto di dissonanze etiche, ma piuttosto del fatto che le istituzioni (per crisi della propria consistenza, anche valoriale) non riescono più a fare cerniera tra dinamica politica e dinamica sociale, e di conseguenza vanno verso un progressivo e quasi orgoglioso rinserramento. Delle tre componenti su cui si giuoca la vita di una società moderna (potere politico, istituzioni, corpo sociale) è la seconda, cioè il mondo delle istituzioni, che oggi è più profondamente in crisi. 

 

C’è un’efficace frase di Anthony Burgess che aiuta a misurare il “cambio di stato” di un periodo storico o quanto meno suggerisce un modo per misurarne i punti di discontinuità quando il nostro modo di pensare e di sentire, e soprattutto il nostro sistema nervoso rifiutano certe innovazioni, vuol dire che il futuro è arrivato e che ciò che si deve fare è mettersi al passo con esso. Un ossimoro perfetto per descrivere il rifiuto delle classi dirigenti italiane a capire ciò che sta avvenendo e che potrebbe/dovrebbe succedere.

 

Sul terreno più circoscritto delle politiche culturali ci ha fornito nuove chiavi interpretative un grande esperto come Pierluigi Sacco (Re-incanto, “guerra di posizione”, educazione al futuro: la progettualità culturale in Italia, Il Giornale delle Fondazioni, 16/09/2016) quando ha sottolineato come per descrivere la situazione italiana di questi anni nel campo delle progettualità culturali, forse le categorie più utili sono quelle del disincanto e del re-incanto”. Arriva anche a definire una exit strategy, pur partendo dall’assunto che: “il pessimismo della ragione ci dice che se questa straordinaria progettualità dal basso non mette radici nella cultura amministrativa, alla fine resterà soltanto una bella stagione le cui ceneri serviranno ad alimentare le nuove forme del disincanto. Non si può, non bisogna accontentarsi. Non si può, non bisogna accettare l’insipienza degli interlocutori istituzionali come una condizione naturale ed immodificabile”. Da qui indica alcune priorità strategiche su cui è possibile costruire quali la scuola, la presa d’atto dell’energia potenziale delle moltitudini di comunità creative presenti sui territori italiani, l’invito a crescere ricolto a chi ha responsabilità amministrative e il ricorso ad alcuni strumenti operativi oggi disponibili nel campo delle politiche attive. E’ quindi incoraggiante considerare che pochi giorni fa lo stesso Pierluigi Sacco a commento della quinta edizione degli Stati Generali della Cultura (Una risorsa strategica per il futuro del Paese, Il Sole 24 Ore, 20/12/2016), ha affermato che ”Si torna a respirare un clima di rinnovata energia, una tensione progettuale che non nasce dalla necessità di ripetere le solite, superficiali iperboli per esorcizzare le paure di un presente in cui non ci si riconosce”.

 

È quindi da qui che vogliamo trarre le ragioni del nostro ottimismo del cuore che riesce sempre a farsi valere, anche quando il pessimismo della ragione spinge in direzione opposta. Una visione del futuro che vuole rafforzarsi e strutturarsi nel tempo, sapendo che i germogli possono essere quelli “atmosferici” o “situazionisti” del riuso creativo con tutti i limiti che questa acrobatica necessità implica. Tra le ragioni che hanno portato a concepire il libro “Riusiamo l’Italia” vi è certamente la tensione verso la possibilità di miglioramento complessivo del sistema paese. Quello di “riusare”  utilmente ciò che viene scartato e abbandonato appartiene ad una delle più elementari forme di buon senso, tra sostenibilità, spirito di sopravvivenza e amor proprio. Un approccio fisiologicamente orientato nel riconoscere e nel riconoscersi come parte di un ambiente fatto di luoghi simbolici, o emblematici che non ha senso lasciare all’oblio. Contesti dove spesso è relativamente semplice riattivare e/o rigenerare funzioni con costi e investimenti anche molto bassi rispetto ad alcuni effetti, magari frastagliati negli impatti, ma certi nel risultato di opporsi al degrado e alla conseguente perdita di valore patrimoniale. Una prospettiva di innesco del cambiamento anche nel breve periodo, indefinita e informale fin che si vuole, ma infinitamente più promettente del pessimismo cosmico fatto di inerzia e disfattismo elevato a mainstream.

 

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Se il commercio si riconcilia con le città storiche

Se il commercio si riconcilia con le città storiche si aprono scenari interessanti per il riuso degli spazi abbandonati e più in generale per dare nuova linfa alla rigenerazione urbana. Nelle ultime settimane si possono registrare due segnali estremamente interessanti in tal senso. Il primo è avvenuto a Biella dove è stato inaugurato il primo city outlet. In una città simbolo della prima rivoluzione industriale diventata nel tempo il capoluogo di uno dei più importanti distretti del tessile – laniero, nasce un progetto innovativo che scardina finalmente l’ipocrisia dei finti paesaggi degli ”outlet” che abbiamo visto sorgere negli ultimi vent’anni nei più svariati “non luoghi” italiani, per scommettere sul valore simbolico e funzionale del centro storico. Si punta in due anni a sviluppare  una rete di 70-80 punti vendita con un fatturato stimato sui 50 milioni di euro per rimettere in gioco capitali e energie locali. Tra i driver dell’operazione l’amica e collega Luisa Bocchietto dell’Associazione “015 Biella” costituita nel 2014 con la volontà di dare vita ad azioni mirate per la valorizzazione del territorio. Il secondo riguarda invece l’evoluzione dei centri commerciali che comincia ad esprimere interesse verso forme più mature, innovative e sostenibili di trasformazione urbana. Dopo aver sperimentato nuovi meccanismi di economia dell’esperienza con  il Centro ad Arese, inaugurato in aprile nell’area prima occupata dall’Alfa Romeo, ora si procede con altri investimenti e nuove visioni. Grazie al dialogo avviato dal Consiglio nazionale dei centri commerciali con il Demanio è infatti in fase di analisi e valutazione il rilancio di immobili pubblici inutilizzati. Nel percorso di esplorazione del futuro che queste dinamiche stanno indagando ci può stare anche una riflessione sulla lunga durata dei cicli storici per un periodo di grandi transizione come quello che stiamo attraversando. In tal senso forse serve riflettere sul modo in cui i commerci in altre epoche hanno cambiato il corso degli eventi e degli uomini, allorquando altre moltitudini attraversavano i territori d’Europa per cause probabilmente non troppo diverse da quelle contemporanee: gli antenati dei mercanti sono i poveri, vale a dire la gente senza terra, la massa fluttuante che batte il paese, che offre la propria opera per la mietitura, che insegue le avventure, i pellegrinaggi (…) Gente che non ha terra è gente di ventura che fa affidamento soltanto su di sé e che niente spaventa. È anche gente ricca di cultura e di risorse, che ha viaggiato, che conosce lingue e usanze diverse, e che la povertà rende intraprendente (Pirenne H., 1936, Histoire de l’Europe des invasions au XVI siècle, Alcan, Paris,; trad. it., 2006, Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Newton Compton, Roma).

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Cantiere animato: nuovi approcci alla progettazione

La progettazione del riabitare uno spazio pubblico si basa sempre più su percorsi che attivano incontri tra persone (spesso giovani) interessati al riuso a fini culturali e sociali di spazi vuoti ed Enti proprietari interessati a questo tipo di “rigenerazioni”, anche temporanee.

Oggi i territori vivono una situazione del tutto nuova, con una crescita smisurata di spazi che vengono progressivamente lasciati vuoti, privi di una loro funzione dʼuso. Eʼ un fenomeno particolare che vede il passaggio da “persone senza spazi” a “spazi senza persone”. Ciò sia nelle aree urbane, che nei territori rurali, dove lʼIstat ha mappato (ad aprile 2015) ben 6.000 “paesi fantasma”, intesi come agglomerati abitativi abbandonati.

Molte esperienze in Italia segnalano già il riuso di questi spazi come esperienza di creazione di valore sociale, culturale ed anche economico /occupazionale. Esistono però sia barriere che difficoltà allʼincontro tra giovani (ed in generale cittadini) interessati a questa rigenerazione e chi ha la proprietà / disponibilità di questi beni (nonostante diverse leggi ed in particolare lʼart. 24 dello Sblocca Italia).

Per favorire questi processi, nei Comuni e/o nei quartieri (comprese le periferie) in cui le relazioni e gli incontri tra persone ed istituzioni sono ancora possibili e fondati su un capitale fiduciario, si possono promuovere percorsi di riuso di questi spazi, affinché diventino “beni comuni”. Un concetto diverso sia da quello di bene di proprietà pubblica, che privata, interessante perché dà meno importanza a questa dimensione per privilegiarne la fruizione d’uso che lo spazio assume (“rivolta alla gente comune”). I “beni comuni” sono quindi spazi di proprietà pubblica (o del Terzo settore, ma anche di privati), affidati però – nella gestione – ad organizzazioni esterne. Ciò sempre garantendo una funzione pubblica – da mandato iniziale – occupandosi della governance della gestione / fruizione del bene.

Quando proprietario del bene è l’Ente Pubblico, proprio per garantirne una funzione pubblica, il ruolo diventa quello di partner del soggetto gestore, partecipe delle attività, grazie all’istituzione di una “cabina di regia pubblica / privata”, che si creerebbe ad hoc per la gestione. In questi percorsi possono nascere anche associazioni temporanee o di scopo, fondazioni di partecipazione, ecc. Non solo: se non partono dal basso e spontaneamente questi percorsi di riuso, l’Ente Pubblico assume il ruolo di attivatore di percorsi e la progettazione diventa la gestione del progetto, l’attesa della trasformazione, la programmazione del “frattempo”, in cui succedono però già delle cose. La rigenerazione non è quindi un’opera pubblica, ma diviene un percorso partecipato, che spesso è anche di co-realizzazione di alcune azioni di riuso (es. pulizia, manutenzioni semplici, ecc.).

Lʼottica di queste operazioni di riuso è di permettere prevalentemente (ma non solo) a “giovani appassionati e competenti” di farne una occasione occupazionale. Ciò facilitando il riuso di questi spazi vuoti in tempi brevi (anche temporaneamente) nell’ottica di start up culturali e sociali, con “low budget”. LʼEnte Pubblico infatti si trova generalmente in carenza di risorse, ma può sostenere la progettazione finalizzata ad azioni di fund raising.

Rispetto ad eventuali capitali, i team di giovani possono accedere ad un programma di finanziamento di istituti finanziari del Terzo settore, su logiche di “capitale paziente” proprio per sostenere questi “cantieri di rigenerazione”. Ma possono guardare anche al fund raising, al crowdfunding, ai bandi pubblici e/o di Fondazioni.

Queste operazioni di riuso sono infatti azioni di rigenerazione (rurale o urbana), di aggregazione pubblica, di partecipazione attiva e di cittadinanza, oltre che di inclusione sociale, sempre in ottica di sviluppo occupazionale. Il Terzo settore (o No profit) infatti in questi anni è stato un ambito che è cresciuto dal punto di vista occupazionale, soprattutto coinvolgendo giovani, in prevalenza qualificati. Queste operazioni di riuso spesso diventano anche azioni di sviluppo locale, soprattutto là dove riprendono temi legati al turismo leggero, alla valorizzazione del territorio, al food, alle tradizioni, allʼarte e cultura.

Questi percorsi partono dalla condivisione interna alla P.A. sulle modalità e condizioni di esternalizzazione e procedono poi con la loro promozione, con lʼavvio di un percorso pubblico animativo di formazione / promozione del riuso dello spazio e si concludono con lʼassegnazione della gestione dello spazio, sempre con una evidenza pubblica e con una modalità trasparente. Viene elaborato anche uno “studio di fattibilità”  ai fini di individuare – sempre in modo coprogettato – vocazione, funzioni dʼuso, analisi investimenti e sostenibiltà della gestione, elementi per un piano di marketing, reti e partner, nuovi pubblici.

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Il riuso però non è detto che parta sempre e solo dall’Ente pubblico. L’attivatore, a seconda dei territori, può essere un soggetto portatore di un bisogno (es. Terzo settore), un gruppo di persone che si unisce per una causa, un’organizzazione particolarmente sensibile alle questioni.Di conseguenza, anche il percorso di riuso / rigenerazione, può avere più dimensioni, dinamiche diverse, tempi più o meno lunghi.

Nel 2016, le buone prassi sviluppate grazie al lavoro diretto degli autori di “Riusiamo l’Italia” sono state l’avvio del co-working/incubatore a Tortona con Impact Hub in una ex Scuola/spazio pubblico vuoto, a Varese Vitamina-C, il social hub promosso da ACSV in una “terrazza” non utilizzata, a Formigine (Mo) la riprogettazione partecipata di un nuovo spazio per i giovani  in uno spazio sotto utilizzato ed in Valle Sabbia (Bs) , l’avvio di un nuovo fab lab in un ex convento. Oltre alla co-progettazione, decisivo è stato l’accompagnamento all’avvio della gestione di questi nuovi spazi.

giovanni.campagnoli@riusiamolitalia.it

Percorsi di progettazione di ri-usi pubblici di spazi vuoti: lo studio di fattibilità e lʼaccompagnamento allo start up

Percorsi di progettazione di ri-usi pubblici di spazi vuoti: lo studio di fattibilità e lʼaccompagnamento allo start up

Schermata 2016-12-03 alle 02.10.05.png1 Lo scenario

Oggi si assiste ad una situazione nuova nel rapporto luoghi/territori. Ci si trova infatti di fronte a contesti dove sempre più gli spazi sono vuoti superano le richieste per eventuali e diverse funzioni dʼuso. Luoghi produttivi dismessi, aree abbandonate, edifici pubblici e para-pubblici vuoti, ma anche Oratori, Stazioni FFSS, cinema, locali commerciali… Sintetizzando, si potrebbe affermare che le politiche giovanili, quelle culturali e quelle urbanistiche dovrebbero darsi lʼobiettivo di riempire questi spazi vuoti con idee e talenti individuali e collettivi, contribuendo alla rinascita delle città e dei territori con nuove energie. A partire da aree interne e periferie. Questa strategia prevede un forte coinvolgimento degli attori locali, anche al fine di valorizzare saperi, tradizioni e know how del territorio, attualizzando magari antiche vocazioni e generando nuovo capitale sociale, indispensabile allo

sviluppo dei territori.

Il punto di partenza è quindi lʼelaborazione, con una fase di ricerca sociale, di uno studio di fattibilità vero e proprio. Finalità di questo lavoro sono quelle di guidare il percorso che porti questi spazi ad essere luoghi di innovazione ed eccellenza nellʼambito specifico delle politiche locali “site specific”, ma comparabili con quelle europee, in quanto pensate e gestite seguendo le linee guida della UE in materia.

A conclusione della fase di ricerca e studio, la fase successiva di questo lavoro è quella di un percorso di accompagnamento con soggetti committenti e gestori. Infatti, una volta definite le caratteristiche, le funzioni dʼuso, il piano marketing ed il budget grazie allo studio di fattibilità, prende avvio la fase di implementazione. Si tratta di un percorso dove formazione, consulenza, accompagnamento, supervisione, analisi di situazioni critiche, si fondono costantemente, in un servizio di tutoring a metà tra momenti dʼaula e lavoro a distanza, con supporto anche rispetto a materiali necessari allo start up del Centro (es. contratti tipo con organizzazioni giovanili, budget dei costi delle attrezzature, selezione dei fornitori, grafiche, ecc.).

2 Lo studio di fattibilità

Lo studio di fattibilità, nell’ambito della progettazione sociale, non sostituisce la redazione del progetto, ma fornisce spunti e indicazioni delle quali chi progetta può tenere conto per organizzare il proprio lavoro.

Per predisporre lo studio, vanno anzitutto raccolti dati, utilizzando diverse fonti informative:

– dati descrittivi del territorio (quanti giovani ci sono, che caratteristiche hanno,quali interessi e competenze, quali sono le attività produttive presenti, ecc…);

– colloqui con testimoni significativi individuati sul territorio (es.: rappresentanti di istituzioni, associazioni, figure educative, operatori economici, gestori di locali, ecc…);

– incontro aperto con tutte le persone potenzialmente interessate all’apertura del Centro;

sopralluogo della struttura, delle sue caratteristiche e della sua collocazione.

Utilizzando i dati raccolti si elabora uno studio di fattibilità ad hoc. Il documento, una volta “approvato” dal committente, viene poi presentato pubblicamente e messo a disposizione

dei soggetti locali interessati, anche alla gestione del Centro. Lo studio diventa, ad esempio per le Amministrazioni locali, il documento progettuale di riferimento in base al quale valutare le offerte in eventuali bandi pubblici.

Lo Studio di fattibilità viene commissionato infatti per definire se un progetto (o un programma) o un’idea di massima:

• produce utilità sociale e culturale;

• può essere realizzato/migliorato dal punto di vista tecnico;

• risulta sostenibile dal punto di vista economico.

Lo studio riguarda una dimensione di futuro (“pro-jecuts”, “verso cosa”) e si basa quindi su delle valutazioni, più che su elementi certi, per cui si devono adottare criteri chiari e trasparenti, in modo da garantire l’obiettività dello studio e dei suoi risultati.

Il prodotto finale dello studio è costituito da un insieme di conclusioni e di raccomandazioni sulla possibile realizzazione e sulla delimitazione degli ambiti, offrendo indicazioni utili a orientarne le priorità, le linee di azione, le strategie e le modalità di lavoro, la pianificazione economica e temporale, le procedure amministrative ed i criteri di valutazione per lʼassegnazione della gestione. Diventa quindi, per il committente, uno strumento conoscitivo utile a supportare le valutazioni relative allʼopportunità di adottare scelte in particolare per quel che riguarda lʼambito di operatività. Infine, oltre alle linee guida per un piano di marketing operativo, lo studio offre un budget degli investimenti necessari alla gestione del centro, insieme ad un budget triennale di gestione, quale strumento utile per accompagnare la fase di start up dello spazio.

Come detto, questo lavoro di ricerca ed elaborazione dello studio di fattibilità deve essere preceduto da un lavoro di analisi sia sulla eventuale documentazione già presente (ad esempio relativa allʼiter di questi centri), sia di ricerca di definizioni e buone prassi inerenti questi spazi, che possano fungere da modelli di confronto. Ma non solo: incontri ed interviste ad hoc, sono le modalità tipiche di lavoro, che prevede incontri/confronti costanti con i committenti e le realtà coinvolte, per la validazione delle ipotesi e/o la

successiva modifica/integrazione.

Infine, ultimo step di questo lavoro, sono i momenti pubblici di divulgazione dei risultati.

2.1 Obiettivi

Obiettivi specifici della fase di ricerca e studio di fattibilità sono:

  • a livello generale, se si tratta di spazi giovanili, applicare nel contesto locale le linee guida degli di “matrice europea” secondo quanto contenuto nei principali e recenti testi normativi in materia di gioventù;
  • se si tratta di spazi “ a vocazione indecisa”, seguire i criteri e linee guida delle progettazioni di riuso / rigenerazione contenute nella letteratura più innovativa  in materia di rigenerazione / riuso;

– individuare – facendo emergere desideri e bisogni locali, tramite la ricerca sociale – l’identità/mission (o “vocazione”) dello, “costruirla” in un percorso di condivisione, comunicarla e renderla comprensibile alla comunità locale (giovani e non solo);

– predisporre, a questo fine, un adeguato piano di marketing e comunicazione;

– elaborare uno studio di fattibilità individuando le condizioni di equilibrio tra sostenibilità economica (budget triennale di gestione e di investimenti) ed utilità sociale dello specifico centro, le relative linee guida di un piano marketing e quelle per un procedimento amministrativo utile allʼindividuazione di un soggetto gestore. La gestione dello spazio, ai fini stessi dellʼefficienza economica, dovrà essere caratterizzata dal costante coinvolgimento dei soggetti ospitati e di nuove proposte, ottenendo valore economico dai processi aggregativi.

Il tutto parte da una fase di studio dei documenti istitutivi o storiografici dei progetti di realizzazione già redatti dalle realtà locali e/o dallʼanalisi di ricerche ad hoc già disponibili.

2.2 Precisazioni necessarie

Lʼapproccio metodologico adottato tende ad essere “generativo” ovvero punta a determinare un equilibrio più virtuoso tenendo conto da una parte del calo progressivo di risorse pubbliche da dedicare e dallʼaltra delle potenzialità e capacità di generare flussi di ricavi ed appropriate economie di scala da affidare a profili gestionali di tipo imprenditoriale.

Ne risulta automaticamente che lʼanalisi degli spazi, delle funzioni da introdurre, degli usi da adottare porti sempre a risultati diversi da quelli per i quali erano stati progettati. Ciò avviene non solo con le strutture le cui funzioni originarie sono cessate, modificate e trasferite in altre sedi, ma anche con contenitori nuovi, di recente e qualificata costruzione, dove le destinazioni dʼuso erano di fatto già riconducibili in tutto o in parte a quelle della nuova vocazione.

Nella conduzione di uno studio di fattibilità e nella gestione del dialogo con lʼente committente ci si trova di fronte a due modelli molto diversi: quello del passato che postulava la capacità del soggetto pubblico di gestire la struttura secondo una specifica visione pianificata e programmata e quello del presente che tenta invece di innescare meccanismi di “leva” economica in tutto o in parte finanziati da soggetti utilizzatori e /o gestori degli spazi.

Nonostante questa diversità di presupposti, lʼesigenza di modifiche agli organismi edilizi solitamente viene ipotizzata a livelli minimi e strettamente indispensabili (anche per il massimo contenimento dei costi), per fattori variegati quali principalmente:

• lʼadeguamento normativo necessario per lʼintroduzione di alcuni funzioni generatrici di reddito (es. il bar e servizi igienici connessi);

• lʼintroduzione di funzioni speciali tipicamente collegate ai target di nuovo pubblico che si intende coinvolgere (es. gli universi giovanili e non sempre presenti nei programmi funzionali originari, ad es. spazi per laboratori ed attività artistiche ed espressive in genere,

skatepark, sale prove musica, ecc.);

• la valorizzazione di alcune soluzioni spaziali di particolare appeal spaziale o emozionale: soppalchi, visuali, rapporto interno/esterno, verde, elementi di design, colori, ecc.;

• conferimento di elasticità e flessibilità ad alcuni specifici comparti del complesso edilizio, anche in termini di arredi e funzionalità varie;

• particolari esigenze di dimensionamento collegata al raggiungimento di standard funzionali o target prestazionali indispensabili per gli specifici obiettivi gestionali.

Si tenga anche conto che proprio in quanto studi di fattibilità, lʼanalisi dello stato dei luoghi e degli spazi avviene attraverso sopralluoghi ed analisi degli elaborati grafici di progetto. Da questo punto di vista, le soluzioni proposte possono essere suscettibili di insufficienti approfondimenti di tipo strutturale e impiantistico. È quindi opportuno ricomprendere prima o durante lʼelaborazione degli studi di fattibilità momenti di confronto con, a seconda dei

casi, i progettisti, i manutentori o i detentori della memoria storica della costruzione e dei luoghi. Partendo dalla condivisione di dati e informazioni ed assicurando un buon livello di dialogo tra i vari portatori di conoscenze si possono ottenere i migliori risultati. Infine, anche lʼanalisi ed i budget delle soluzioni tecniche proposte in riferimento ad arredi ed attrezzature, deriva da elementi di altre realtà che già hanno adottato quanto proposto e che sono comunque comparabili con quelle oggetto di studio. Di conseguenza, tutte le

soluzioni proposte devono poi essere oggetto di approfondimento in sede di acquisto.

3 L’accompagnamento allo start up

In questo ambito, è utile prevedere un accompagnamento formativo/consulenziale alle fasi di start up del centro giovani, con il coinvolgimento attivo delle persone responsabili dellʼorganizzazione che si occupa della gestione, gli operatori, gli “attivi”, altro personale

professionale, referenti istituzionali. Il percorso formativo è molto calato nella situazione e prevede metodologie di apprendimento attivo, sperimentazioni, visite guidate, bench marking, innovazione sociale per arrivare ad una gestione di “successo” di un nuovo modello di centro giovani, su base delle recenti indicazioni europee in materia di gioventù.

3.1 Il contesto

Uno spazio giovani (nuovo o che si rinnova) in fase di avvio, affronta una serie di tappe delicate in quanto incidono e connotano le fasi ed i tempi successivi dello sviluppo del centro.

I requisiti base per il successo nella fase dellʼavvio di uno spazio sono lʼalta partecipazione di cittadini (e/o giovani) – fin dalla fase iniziale – ed una start up giovanile o una organizzazione “matura” in grado di garantire gli aspetti fiscali/gestionali/amministrativi, oltre che alla presenza attenta delle istituzioni.

La presenza contemporanea di questi elementi è il punto di partenza per lʼavvio degli spazi: la sfida è che da queste premesse nasca un progetto operativo gestionale che porti a garantire lʼapertura e lʼavvio del nuovo spazio o nel più breve tempo possibile, definendone anche aspetti di microprogettazione, quali la scelta di arredo ed attrezzatura, programmazione, attività, comunicazione, apertura, nuove azioni sperimentali, ecc.

Lʼipotesi base è che lʼavvio avvenga fin da subito con il coinvolgimento di operatori professionisti, giovani attivi e responsabili istituzionali.

Di conseguenza gli attori coinvolti in questo progetto sono i giovani stessi, gli operatori dellʼorganizzazione che ha la mission di avviare il centro, i responsabili istituzionali delle Amministrazioni coinvolte.

Il progetto si articola su un doppio binario:

– lʼaccompagnamento allʼavvio del centro (con supervisione anche nellʼattrezzaggio, marketing e comunicazione, microprogettazione, supervisione alla fasi gestionali)

– percorso formativo parallelo impostato sullʼacquisizione di conoscenze e competenze relative alla gestione di un centro giovani, alla assunzione di un ruolo, alla condivisione di obiettivi e finalità comuni.

Il percorso formativo prevede quindi momenti dʼaula comuni ed “assetti variabili”, visite guidate ad altre esperienze con alcune sperimentazioni in situazione, bench marking.

I contenuti del percorso devono essere veramente innovativi:  ed il progetto formativo prevede quindi che sia garantito un accompagnamento ed una formazione allo start up di questi spazi, affinché diventino “luoghi” significativi per la comunità locale (a partire dai giovani), con un forte ruolo di “attrattore” per le nuove generazioni, unito a quelle capacità di progettazione che sanno cogliere le innovazioni di cui i giovani (e/o gli start uppers sociali e culturali) sono naturali “portatori” e che vengono richieste a chi “sa stare” ogni giorno con loro.

Va quindi tradotta in nuova progettualità tutta la “freschezza e l’attualità”, le novità, le mode, le innovazioni, i bisogni e desideri che si colgono in questi percorsi di partecipazione. Si vede come oggi i tempi sono maturi affinché le comunità locali, i territori, si impegnino invece a gestire situazioni di crisi e difficoltà, sapendo recuperare risorse e valori, per costruire nuovi “beni comuni”, attualizzando le domande ed organizzando risposte in modo innovativo ed al tempo stesso sostenibile, prevedendo – per questi luoghi – anche un investimento iniziale, un piano di rientro e sviluppando al contempo una funzione di “fund raising” locale.

3.2 Le attività da realizzare

Le attività da realizzare riguardano momenti formativi e consulenziali al gruppo, seguendo lʼavvio del centro, dalle prime fasi pre apertura, fino allʼinaugurazione ed allʼavvio. Questa supervisione riguarda il team di cui si è detto prima.

Il percorso formativo è basato su “assetti variabili” e, prevedendo anche momenti di visite, la partecipazione varia a seconda dei temi trattati, pur mantenendo il nucleo di partecipanti legati alla consulenza, attorno al quale – in questa fase formativa “non convenzionale” – possono appunto ruotare altri start uppers, operatori, referenti di istituzioni.

Il percorso si articola in un numero contenuto di incontri ed in breve lasso di

tempo (ad es. 12 incontri in sei mesi) sei mesi.

3.3 Contenuti del percorso di accompagnamento allʼavvio di un nuovo

spazio

Il team di lavoro che si occupa di un percorso di questo tipo, deve comprendere formatori con competenze diverse, dallʼanimazione sociale alla cultura, dalla creatività al welfare. I contenuti in relazione alle fasi sono:

Microprogettazione

> Individuazione del luogo: caratteristiche interne e localizzazione

> Il business plan, il budget dellʼinvestimento, la sostenibilità ed il punto di pareggio

> Realizzazione dello spazio: progettazione interna e co-progettazione con il territorio

> Attrezzature tecniche, strumentazioni ed allestimento interno

> Il marketing degli spazi rigenerati: il valore del brand, l’investimento in comunicazione e promozione ed obiettivi di ritorno sullʼinvestimento

> Naming, arredi, colori, lay out, attrezzature da interni (e da esterni) da prevedere nella progettazione egli spazi giovanili. La tecnica del “rendering” condiviso e le professionalità da coinvolgere

> I ruoli, le funzioni ed i compiti per la gestione dello spazio. L’avvio e la gestione

> La formula di gestione: diretta, concessione e partnership con altre

organizzazioni.

> Dall’avvio all’evento di inaugurazione, dalla progettazione dello spazio, alla programmazione delle attività

> Processi di comunicazione e creazione di valore nella progettazione e sviluppo di spazi giovanili: ricerca di visibilità nella comunità locale

> Informazione e comunicazione, tra free cards e social networks

> La stima dei costi e degli investimenti in promozione e comunicazione, nelle varie fasi di sviluppo dello spazio

> Costruire reti di partnership, dalla comunità locale all’Europa, e con le realtà già presenti. La ricerca del coinvolgimento e della partecipazione diretta, dall’aggregazione al lavoro.

> Fund raising, crown funding, locale, marketing e Pubbliche relazioni a sostegno degli spazi giovanili nella comunità locale

> Finanziare la rigenerazione: opportunità nazionali, europee e locali. Il ruolo ed i finanziamenti dei programmi europei. La funzione di “fund raising” locale. Il ricorso al microcredito ed al prestito diffuso

> Entrare e stare nelle reti di spazi giovanili: costi e ritorno sugli investimenti. Verifica e valutazione

> Riprogettare spazi ed interventi generativi di utilità sociale e di risorse economiche

> La definizione e la valutazione valore sociale ed economico creato

> La valutazione come processo di attribuzione di significato, come momento di condivisione e riprogettazione.